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ETRUSCHI DEL NOVECENTO

Mart e Fondazione Luigi Rovati presentano “ETruschi del novecento” a cura di Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Giulio Paolucci, Alessandra Tiddia.

Mart Rovereto, 7 dicembre 2024 − 16 marzo 2025 / Fondazione Luigi Rovati Milano, 2 aprile 2025 − 3 agosto 2025.

 

1916 Viene ritrovato l’Apollo di Veio. A partire da questa scoperta nel giro di pochi anni prende avvio il periodo conosciuto come “rinascenza etrusca”.

1955 e 1985. Vengono organizzate grandi mostre internazionali dedicate agli Etruschi. Attorno a queste date, nei periodi precedenti e successivi fioriscono studi, convegni, dibattiti; agli Etruschi si ispirano intellettuali, artisti, designer, stilisti, orafi. Una vera e propria “etruscomania”.

2024/2025. Il Mart e la Fondazione Luigi Rovati presentano Etruschi del Novecento: un grande progetto espositivo sulla fortuna che ebbe la cultura etrusca sui moderni e sui contemporanei.

Gli elementi di un grande progetto

Due tra i maggiori musei italiani: Mart e Fondazione Luigi Rovati

Tre storiche dell’arte: Lucia Mannini, Università di Firenze, Presidente Museo Stibbert, Anna Mazzanti, Politecnico di Milano, Alessandra Tiddia, Mart di Rovereto

Un etruscologo: Giulio Paolucci, Fondazione Luigi Rovati, direttore Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona

Due mostre in due città: dal 7 dicembre al 16 marzo Rovereto, dal 2 aprile al 3 agosto a Milano.

Oltre 200 opere esposte: un dialogo tra grandi capolavori dell’arte moderna e reperti archeologici a cui si aggiungono decine di documenti, libri, fotografie, riviste.

Il metodo: i confronti in mostra non si limitano agli aspetti stilistici o alle somiglianze, al contrario sono basati su documenti e dichiarazioni degli artisti stessi che furono influenzati, parteciparono a “tour etruschi”, visitarono musei e zone archeologiche, scrissero, studiarono o si dedicarono alle “etruscherie”.

Se tra gli artisti del primo Novecento sono numerosi i rimandi al mondo “classico”, greco o romano, gli Etruschi ispirano coloro che prediligevano una posizione artistica “anti-classica”, alla ricerca di un linguaggio espressivo differente, originale.

Al Mart Etruschi del Novecento si inserisce nel filone di progetti che confrontano e propongono dialoghi tra periodi storici differenti. La mostra inoltre conferma la mission stessa del museo che tutela, studia e valorizza un patrimonio di opere e materiali d’archivio che guarda con particolare attenzione alle vicende dell’arte italiana nel XX secolo.

Alla Fondazione Luigi Rovati Etruschi del Novecento conferma l’identità e l’eclettismo della Fondazione che incrocia le epoche storiche e le categorie artistiche, partendo dal nucleo originario della collezione etrusca per arrivare ad opere commissionate ad artisti viventi.

Il progetto espositivo 

Etruschi del Novecento racconta di come la civiltà etrusca abbia influenzato, a più riprese, la cultura visiva del secolo breve: a partire dai ritrovamenti archeologici e dai tour etruschi, organizzati a cavallo tra il XIX e il XX secolo, fino alla Chimera di Mario Schifano, eseguita durante una performance a Firenze nel 1985, in occasione dell’inaugurazione del cosiddetto anno degli etruschi.

L’eco di scoperte sensazionali come quella dell’Apollo di Veio (del IV secolo a.C. la scultura in terracotta dipinta, alta quasi due metri, fu ritrovata nel 1916 ed è oggi conservata al Museo di Villa Giulia a Roma) portò alla diffusione di numerosi studi e pubblicazioni e alla ripresa di stili, forme, temi, materiali.

Il sorriso arcaico, gli animali fantastici, la vita e la morte, il culto del popolo misterioso ammaliarono i moderni, affascinati dallo stile denso, sintetico, sincero, “primitivo”.

Tra gli altri, contribuì al “mito etrusco” l’intellettuale di riferimento del primo Novecento, Gabriele d’Annunzio. Negli anni dei suoi viaggi a Volterra, dove ambientò il suo romanzo Forse che si, forse che no, d’Annunzio lavorò all’opera drammaturgica La città morta che andò in scena a Parigi (1898) e a Milano (1901) con l’interpretazione di Eleonora Duse. Nel generale clima di interesse verso l’archeologia e gli scavi, il Vate mise in scena una tragedia ambientata in un tempo sospeso, nel mondo delle ombre, nel quale i protagonisti si muovono tra un repertorio indistinto di copie di opere archeologiche.

Se la cultura di fine Ottocento, erede della tradizione simbolista, è incuriosita da un popolo misterioso che riaffiora dalle tombe dell’Etruria, nel secondo Novecento due celebri esposizioni amplificheranno la portata del fenomeno anche all’estero, raggiungendo artisti del calibro di Alberto Giacometti, Pablo Picasso, Andy Warhol o registi come Alfred Hitchcock.
Si tratta della Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, allestita da Luciano Baldessari a Palazzo Reale a Milano nel 1955, e di Civiltà degli Etruschi, organizzata nel 1985 nell’ambito del variegato Progetto Etruschi che la città di Firenze e la Regione Toscana dedicarono a quello che venne chiamato l’anno degli etruschi.

Oggi Mart e Fondazione Luigi Rovati offrono per la prima volta una visione complessiva del vasto e articolato fenomeno che fu la riscoperta della civiltà etrusca nel secolo scorso, attraverso un progetto in due tappe diverse e complementari, da inizio dicembre ’24 a inizio agosto ’25, a cura di un unico team curatoriale.

Nelle due mostre l’arte visiva dialoga con le arti applicate e grafiche: dalla pittura all’arte orafa, passando per la statuaria e documentando il ritorno di forme, di tecniche e di materiali come la terracotta dipinta, i metalli, la pittura parietale e vascolare, il bucchero (la tradizionale ceramica nera utilizzata dagli Etruschi per realizzare vasi).

I confronti tra antichi e moderni vengono approfonditi in maniera puntuale grazie a riproduzioni fotografiche, pubblicazioni e una preziosa selezione di straordinari pezzi archeologici.

Commenta Vittorio Sgarbi, Presidente del Mart: Tutto il Novecento è percorso da una “febbre etrusca” che va da Martini a Serafini e che indica un percorso non classico, ma espressionistico, deformante dell’arte del Novecento, una vera e propria estetica della deformazione senza tempo.

Commenta Giovanna Forlanelli, Presidente della Fondazione Luigi Rovati: Abbiamo accettato con entusiasmo questa collaborazione con il Mart che consolida la nostra costante ricerca di dialoghi fra il mondo etrusco e gli artisti che nel tempo ad essa si sono ispirati.

Il catalogo

Etruschi del Novecento è anche un catalogo, pubblicato da Johan & Levi Editore contenente i saggi delle curatrici e del curatore e testi di esimi studiosi e studiose come Matteo Ballarin, Fabio Belloni, Martina Corgnati, Alessandro Del Puppo, Maurizio Harari, Claudio Giorgione, Mauro Pratesi, Nico Stringa.

La mostra si avvale dalla collaborazione del FAI con Villa Necchi Campiglio e del Museo del Novecento che arricchiscono il percorso di mostra con L’amante morta di Arturo Martini e il Popolo di Marino Marini, per ragioni conservative non sono esposti nelle sedi della mostra ma sono inseriti nel progetto e nel catalogo.

La prima tappa

Mart Rovereto, 7 dicembre 2024 − 16 marzo 2024

La mostra si snoda lungo un percorso tematico costituito grazie a prestiti provenienti da prestigiose collezioni pubbliche, come la Galleria Nazionale di Roma, Ca’ Pesaro, la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, lo Stedelijk Museum di Amsterdam e il Musée Picasso di Parigi, e da i più importanti musei archeologici: il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, l’Accademia Etrusca di Cortona, il Museo Archeologico Nazionale di Arezzo, il Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia e il Museo Civico Archeologico di Bologna.

In mostra anche opere appartenenti ai patrimoni degli organizzatori del progetto, il Mart e la Fondazione Luigi Rovati.

A questi si aggiungono opere provenienti da collezioni private e fondazioni.

Il display allestitivo, coinvolgente e scenografico, è di Officina delle idee, Torino.

Convivono insieme a reperti archeologici e preziosi documenti quasi 200 opere, tra cui si segnalano quelle di Massimo Campigli, Marino Marini, Arturo Martini, Alberto e Diego Giacometti, Pablo Picasso, Michelangelo Pistoletto, Gio Ponti, Mario Schifano, Gino Severini.

La seconda tappa

Fondazione Luigi Rovati Milano, 2 aprile 2025 − 3 agosto 2025

Nel Museo d’arte la mostra si sviluppa in entrambi i piani espositivi: accanto alla collezione permanente, i capolavori esposti seguono il percorso tematico della prima tappa al Mart, con la scelta a Milano di proporre solo artisti italiani.

Con l’occasione vengono esposte alcune opere inedite della collezione di arte moderna e contemporanea della Fondazione.

Gli eventi
Dal mese di gennaio la mostra sarà completata da un ciclo di appuntamenti nelle sedi delle mostre e fuori sede, in una sorta di “tour etrusco” contemporaneo.
A Rovereto e a Milano si susseguiranno presentazioni, talk, proiezioni, visite speciali; dal cinema alla letteratura, dal design all’artigianato.

Il 20 febbraio, alla Fondazione Luigi Rovati si terrà un’importante Giornata di Studi per approfondire ulteriormente i contenuti delle mostre.

Etruschi del Novecento a Rovereto.

Il percorso di mostra nei testi di sala.

Il Mart e la Fondazione Rovati offrono per la prima volta una visione complessiva del vasto e articolato fenomeno che fu la riscoperta della civiltà etrusca nel secolo scorso, attraverso un progetto composto da due mostre complementari, a Rovereto e a Milano.

L’esposizione racconta come l’arte etrusca abbia influenzato, a più riprese, la cultura visiva del XX secolo, in particolar modo a partire da clamorosi ritrovamenti come l’Apollo di Veio, scoperto nel 1916, e dallo sviluppo della moderna Etruscologia negli anni tra le due guerre. Sono gli stessi archeologi a parlare di “rinascenza etrusca” e a contribuire alla divulgazione degli studi sull’antico popolo italico, il cui mistero affascina anche il grande pubblico. A visitare i musei e i siti archeologici e a consultare gli ampi repertori di immagini pubblicati in quegli anni sono soprattutto gli artisti, attratti dallo stile sintetico ed espressivo dell’arte etrusca, contrapposta alla classicità greca e romana.

La storia di questa fascinazione è raccontata accostando una selezione di reperti antichi alle creazioni di artisti e manifatture del Novecento. Dalla pittura all’arte orafa, dalla scultura alle arti grafiche, la mostra documenta la rielaborazione di forme, tecniche e materiali di origine antica nelle opere moderne.

Un dialogo simboleggiato dall’opera di Michelangelo Pistoletto L’Etrusco (1976) che, come un portale, introduce al percorso espositivo. Una copia dell’Arringatore, raro esemplare integro di scultura in bronzo etrusco-romana, è collocata davanti a uno specchio, che nelle opere di Pistoletto rappresenta “l’alternativa alla vecchia prospettiva”. Come spiega l’artista, il braccio teso indica “la strada che porta al di là del muro su cui l’umana individualità si sta sfracellando”.

Viaggio in Etruria

Nel 1909 Ardengo Soffici scrive all’amico Pablo Picasso invitandolo a Firenze per visitare il museo etrusco e per recarsi insieme a Chiusi, a Volterra, a Perugia, dove – scrive l’artista – vi “sono tombe etrusche con delle pitture decisamente divine”. Due dei protagonisti delle avanguardie, dunque, si interessano a musei e siti etruschi alla ricerca di spunti per la loro ricerca.

Come testimoniano i racconti, i quaderni di appunti e gli schizzi di molti artisti italiani e stranieri, i luoghi etruschi sono stati, nel corso del Novecento, meta di pellegrinaggio e di studio. Pittori e scultori sono attratti da capolavori come la Chimera di Arezzo o l’Apollo di Veio, dalle urne alabastrine di Volterra già care a d’Annunzio, dalle pitture murali di Tarquinia ricche di vividi dettagli e calde cromie e da opere particolarmente attuali come il Caprone di Bibbona, che la rivista “Domus” presenta, nel 1931, quale esempio di “moderna suggestione”.

La mappa pubblicata dall’etruscologo Massimo Pallottino nel catalogo della Mostra dell’arte e della civiltà etrusca (1955) è lo spunto per immaginare un ideale viaggio in Etruria sulle orme di archeologi e artisti, ripercorrendo alcune tappe della riscoperta di questa antica civiltà.

La fortuna degli Etruschi

Il 19 maggio del 1916, nella località di Portonaccio presso Veio, Giulio Quirino Giglioli scopre un gruppo di grandi figure in terracotta, tra le quali un Apollo e una testa di Turms, nome etrusco del dio Mercurio. Le sculture entrano a far parte delle collezioni del Museo di Villa Giulia a Roma in un’epoca che vede la nascita dell’Etruscologia, disciplina che si afferma nel corso degli anni Venti e Trenta con il primo Convegno Nazionale di Studi Etruschi (1926) e la fondazione dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi (1932).

In quel periodo si i moltiplicano gli scritti dedicati allo studio sulla vita, sulla cultura e sull’arte etrusca, vengono pubblicati ampi repertori di immagini e anche nella letteratura si trovano tracce di questo interesse.

Il secondo dopoguerra vede un altro importante momento di approfondimento. Nei primi anni Cinquanta Firenze ospita la Mostra di pittura etrusca e la Mostra della scultura etrusca, mentre tra 1955 e 1956 si svolge la Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, una vasta rassegna scientifica che si avvale del lavoro dell’archeologo Massimo Pallottino. La civiltà etrusca viene fatta conoscere così al grande pubblico e la terza tappa di questa mostra itinerante, tenutasi all’Aia, è intitolata Il segreto degli Etruschi per evocare l’atmosfera di mistero che in quell’epoca veniva associata alle civiltà non classiche.

Negli anni Ottanta, infine, spicca il Progetto Etruschi: una serie di iniziative culturali promosse da Ministero dei Beni Culturali e Regione Toscana nell’estate del 1985.

Etruscomania

Fra le mete più antiche e suggestive del tour etrusco va menzionata Volterra con il museo Guarnacci, luogo amato da d’Annunzio che in questa città ambienta il romanzo Forse che sì, forse che no, pubblicato nel 1909.

A colpire il poeta sono le silenziose presenze raffigurate sui coperchi delle urne, testimoni di una confidenza con la morte che risuona nella sensibilità decadente del Vate, per il quale il mondo etrusco rappresenta un’antichità alternativa a quella classica, sbilanciata sul côté dionisiaco, anti-apollineo e perciò anti-classico.

Sono in mostra opere che testimoniano la diffusione di un ampio mercato di copie e falsi come, ad esempio, una replica moderna del celebre Trono Corsini, scolpito nel marmo in epoca romana secondo lo stile etrusco. Questo oggetto realizzato in terracotta dalla Manifattura di Signa campeggiava al centro del palco nella rappresentazione teatrale del dramma dannunziano La città morta, andato in scena al Teatro Lirico di Milano nel 1901 con l’interpretazione di Eleonora Duse. Una tragedia ambientata in un tempo sospeso, nel mondo delle ombre, dove gli attori si muovevano tra un repertorio di copie di opere archeologiche.

Le statue di Veio e il sorriso di Apollo

Lo straordinario ritrovamento ad opera di Giglioli nel santuario di Portonaccio ha un’ampia eco anche al di fuori delle pubblicazioni di settore. Nel 1920 l’archeologo pubblica su Emporium le immagini delle quattro sculture rinvenute nel luogo dove sorgeva un tempio dedicato ad Atena. Una di queste è la testa di Turms/Hermes, parte della decorazione del tetto che aveva come soggetto una delle dodici fatiche di Eracle. Si trattava, probabilmente, della contesa tra l’eroe e il dio Apollo per la cattura della cerva dalle corna d’oro, dove Hermes ha il ruolo di messaggero della volontà di Zeus. L’opera è attribuita alla stessa bottega fondata a Veio nel VI secolo a.C. da Vulca, il cosiddetto Maestro dell’Apollo, la statua più celebre tra quelle scoperte da Giglioli.

L’Apollo, con il suo sorriso enigmatico e la raffinata acconciatura, è protagonista del progetto di manifesto disegnato da Marcello Nizzoli per la Biennale di Venezia del 1934, ma era già apparso sulla copertina del catalogo della Mostra del Novecento italiano (1926) e dell’opuscolo pubblicato in occasione della V Triennale di Milano.

La suggestione esercitata dalle statue di Veio si avverte anche nelle sculture, esposte nella prossima sala, di Libero Andreotti, Antoine Bourdelle, André Derain e Alfred-Auguste Janniot, caratterizzate da un gusto arcaicizzante.

La voga degli Etruschi

I primi esempi di gioielli che imitano reperti archeologici appartengono alla manifattura romana dei Castellani, nella seconda metà dell’Ottocento. Ma sarà soprattutto a partire dal secondo dopoguerra che nella creazione di ornamenti femminili emergono forme e tecniche di derivazione etrusca.

La sala dedicata all’oreficeria nella Mostra dell’arte e della civiltà etrusca (Milano, 1955) mette in luce una particolare sintonia tra quei reperti e il gioiello contemporaneo. In quegli anni, i grandi nomi della bigiotteria d’autore e gli artisti impegnati nelle ricerche sul gioiello interpretano una tendenza che fonde il gusto archeologico con quello barbarico, in nuovi filoni di primitivismo.

Arnaldo Pomodoro, ad esempio, dichiara di rivolgere la sua attenzione all’arte etrusca e all’arte africana; nei monili di Afro Basaldella sono evidenti riferimenti a epoche lontane mentre gli orecchini di Fausto Melotti sembrano evocare i pettini etruschi.

In concomitanza con le mostre toscane dedicate agli etruschi nel 1985, il marchio aretino UnoAErre parte dallo studio dei reperti del Museo Archeologico di Firenze per sperimentare le tecniche della granulazione e del pulviscolo.

L’arte etrusca ispira anche i servizi di moda, tanto che l’“espressione della donna del 1955” sembra ricalcare i volti delle sculture: sorriso arguto, sopracciglia ben marcate, occhi allungati e bistrati, naso appuntito. A intercettare quella che Irene Brin definisce “voga degli Etruschi” è soprattutto la casa di moda di Fernanda Gattinoni che nel gennaio del 1956 presenta la sua Linea Etrusca, con servizi fotografici ambientati nel Museo di Villa Giulia a Roma.

Volti di terracotta

La terracotta è uno dei materiali tipici dell’arte etrusca, prediletta dagli scultori del Novecento nel clima di riscoperta di questa civiltà. Anche i colori terrosi della pittura di Massimo Campigli sembrano evocare l’argilla con la quale sono plasmati i volti antichi e moderni qui esposti. L’amore di Campigli per gli etruschi inizia nel 1928, con la sua prima visita al Museo Nazionale Archeologico di Villa Giulia a Roma, quando sente di essere attorniato da un “mondo di serenità” e da tante “facce di terracotta”.

Arturo Martini, che aveva già frequentato quel museo nei primi anni Venti, modella la creta in forme tondeggianti su cui incide segni che ricordano il tipico graffio etrusco. La poesia e l’espressività che infonde a questa materia povera gli guadagna l’attenzione generale e contribuisce al diffondersi di ritratti in terracotta dai lineamenti stilizzati come quelli delle figure arcaiche. La superficie scabra e imperfetta di queste teste diviene espressione della fragilità umana, contrapposta alla levigatezza del marmo con cui l’arte classica interpretava un ideale di perfezione.

In quegli anni, sono proprio gli archeologi a sottolineare la lontananza degli etruschi dalla classicità, i “volti grossolani e sgraziati” ma dai “toni mirabilmente vigorosi” (Giglioli e Ducati) che caratterizzano le loro figure. Questa lettura è particolarmente interessante per gli artisti che ricercano, come Marino Marini, “il nocciolo, la radice” del linguaggio nuovo che la terracotta poteva esprimere.

Sculture come vasi

I vasi canopi, usati dagli Etruschi per contenere le ceneri dei defunti, sono caratterizzati da un coperchio modellato in forma di testa e, talvolta, da manici-braccia, come si vede in uno dei reperti provenienti dal Museo Civico Archeologico di Bologna. Diffusi soprattutto nella zona di Chiusi, dove si praticava la cremazione, nel corso del Novecento affascinano e ispirano molti artisti. Si vedano, ad esempio, le figure ad anfora e l’accostamento tra teste e vasi nei quadri dipinti da Campigli tra gli anni Venti e Trenta o l’originale interpretazione del busto scultoreo nei ritratti che Manzù fa alla moglie Inge, dove il corpo diventa vaso. Al contrario, il grande vaso di Fausto Melotti in ceramica smaltata evoca un corpo stilizzato, pur senza avere il carattere antropomorfo di altre sue opere.

Arturo Martini inizia a modellare l’argilla a Vado Ligure, in uno studio sotterraneo dalla cui penombra fuoriescono sculture come il Bevitore del 1928. Le forme anatomiche, ridotte al minimo essenziale, sono una sequenza di concavi e convessi, in una compattezza di volumi che unisce vaso e testa del bevitore evocando la dimensione del canopo arcaico.

Recumbenti moderni

Le figure sdraiate su un fianco, dormienti oppure con il busto sollevato nella tipica posizione dei banchetti, sembrano portare nell’oltretomba le abitudini terrene dei defunti. I recumbenti contraddistinguono i coperchi delle urne cinerarie o dei sarcofagi e sono tra i manufatti più ricordati dai visitatori del grand tour etrusco. Lo scrittore David H. Lawrence, autore del noto Etruscan places (1932), ne apprezza i tratti realistici e le pose naturali, affermando di preferirli persino al Partenone.

La posa dei recumbenti ricorre in molte opere novecentesche, come nella figura di Campigli che sembra imitare il gesto grazioso della donna che solleva il velo nell’urna proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

Ancora una volta, Arturo Martini è tra i primi artisti a guardare alla corporeità “carnosa” di quelle figure adagiate, dalle forme “globose”’ e dagli arti troppo lunghi a causa di quella “assenza quasi totale di una ricerca anatomica attenta”, che l’archeologo Bianchi Bandinelli quasi scusava e della quale l’artista faceva tesoro.

Nel secondo dopoguerra, il celebre Sarcofago degli Sposi di Villa Giulia ispira un artista espressionista e informale come Leoncillo che ne offre un’interpretazione deflagrante con una ceramica astratta dall’aspetto tellurico.

Idoli alla maniera etrusca

Nel 1930 le immagini di una serie di bronzetti conservati al Museo di Villa Giulia e al Louvre compaiono sulla rivista “Documents” suscitando un grande interesse. La mostra di arte etrusca alla Triennale di Milano, nel 1933, è ammirata da molti artisti, attratti dalle forme scarne degli ex voto e dalle figurine acrobatiche che ornano i manici dei vasi.

Nella scultura di quel periodo si osserva un’inclinazione a “far piccolo”, scelta da Arturo Martini come alternativa alla tradizione del naturalismo ottocentesco e alla retorica monumentale. Da Mirko e Dino Basaldella, che lavorano nella direzione della semplificazione formale, a Marcello Mascherini, che racconta come solo il museo di Villa Giulia gli abbia dato “la grande emozione”, molti artisti italiani partecipano a questa nuova estetica.

Nel secondo dopoguerra Marino Marini e Fausto Melotti danno forma a giocolieri, danzatori e piccoli cavalieri che ricordano il linguaggio della scultura etrusca.

Severini, autore di bronzetti ispirati ai capolavori del Museo di Cortona, ha avuto un ruolo nell’avvicinare l’amico Picasso all’arte etrusca. L’artista spagnolo, da sempre interessato alla scultura primitiva, adotta un diverso approccio e parte da legni scabri, come tagliati con l’accetta, dalle superfici irregolari che si contrappongono alla classica levigatezza del marmo.

Alberto Giacometti, infine, predilige un allungamento delle forme che presenta evidenti affinità con la scultura etrusca, pur non imitandola direttamente.

Buccheri del Novecento

Nero in superficie e anche in frattura, lucido oppure opaco, ottenuto attraverso un particolare procedimento di cottura, il bucchero è un materiale tipico dell’arte etrusca che viene riscoperto nel corso del Novecento.

Attorno al 1889 Francesco Randone avvia a Roma le ricerche che gli permetteranno di recuperare le ricette e i procedimenti di questa antica tecnica che condivide esclusivamente con le figlie, sue collaboratrici. Accanto a esplicite rivisitazioni di kyathos, coppe con un manico utilizzate per attingere liquidi, i buccheri più raffinati realizzati dalla famiglia Randone sono piccole e leggerissime lanterne, mentre le opere più impegnative sono i rhyton, rivisitazione dei contenitori zoomorfi di tradizione etrusca. Impreziosisti da decorazioni graffite a stecco, molti di questi oggetti portano inciso un motto o una dedica.

Tra gli anni Venti e Trenta anche un altro artista romano, Duilio Cambellotti, si interessa a questa tecnica. Realizzati presso il Regio Istituto Nazionale di Istruzione Professionale con la collaborazione di Fernando Frigiotti, i buccheri di Cambellotti dimostrano una predilezione per la decorazione plastica. Talvolta richiamano il modello etrusco, come nella patera (larga ciotola usata dagli antichi durante i riti) o nel Vaso dello Zodiaco; altre volte se ne distaccano decisamente, come nel Vaso dei corvi e ne Il buttero.

La riscoperta della tradizione etrusca è portata avanti, nel secondo dopoguerra, da Carlo Alberto Rossi che si cimenta nella creazione di buccheri ai quali Gio Ponti guarda con interesse. Le forme moderne delle creazioni esposte da Rossi alla Triennale di Milano del 1951 si devono proprio a Ponti, che non di rado metteva i propri disegni a disposizione di altri artisti o manifatture.

Ispirazioni etrusche

Nel corso del Novecento molti artisti italiani guardano alla cultura etrusca per inventare un universo di nuovi oggetti.

La cista è un contenitore in bronzo di forma cilindrica utilizzato dagli etruschi per custodire gioielli o prodotti di cosmesi, spesso decorato da incisioni e dotato di coperchio con manico figurato. Gio Ponti si ispira a questi antichi manufatti per disegnare oggetti in ceramica prodotti dalla Società Ceramica Richard-Ginori, reinterpretando in modo originale anche le forme delle olle a scacchiera e dei grandi contenitori sferoidali. Guido Andloviz, direttore della Società Ceramica Italiana di Laveno, rilegge il mondo etrusco nelle ciste e in vasi ispirati agli ossuari. Talvolta, l’affinità con i reperti archeologici è accentuata dagli effetti di superficie corrosa ottenuti con lo smalto.

Le sculture anatomiche, in particolare raffiguranti le mani, che gli etruschi erano soliti offrire in dono alle divinità esercitano un grande fascino su Ponti. Gli stampi usati per la produzione dei guanti di gomma vengono impreziositi da raffinate decorazioni che conferiscono a un banale prodotto industriale l’aura sacrale delle sculture votive etrusche.

Di intonazione arcaica e popolare sono, invece, le lucerne modellate da Cambellotti negli anni Trenta che richiamano l’holmos etrusco. Ma è soprattutto la forma dell’askos, vaso etrusco a due bocche dalla forma antropomorfa o zoomorfa, a ricorrere nelle ceramiche o nei vetri disegnati dagli artisti del Novecento, da Ponti a Buzzi, fino a diventare uno dei temi prediletti da Picasso e Melotti.

L’attualità della Chimera

Fra tutti i mostri e gli esseri ibridi che popolano la letteratura e la mitologia di ogni tempo, la Chimera è probabilmente il più bizzarro, elusivo e sfuggente.

La famosa Chimera di Arezzo – il bronzo etrusco ritrovato nella città toscana nel 1553 e voluto da Cosimo I de’ Medici per la propria collezione, oggi al centro delle celebrazioni vasariane e pertanto indisponibile al prestito – è qui ricordata da una versione più piccola. Con questa scultura antica si confrontano le opere plasmate da Arturo Martini negli anni Trenta, dalle quali sembrano discendere i lavori di Mirko Basaldella. La sua Chimera urlante, infatti, ricorda il Leone di Monterosso di Martini per le fauci spalancate, il capo rivolto da un lato e la coda serpentiforme che si incunea fra le zampe.

Le Chimere riaffiorano negli anni Ottanta, quando gli etruschi ritornano al centro dell’interesse di vari artisti grazie anche alle mostre toscane del Progetto Etruschi del 1985. Fra loro c’è Mario Schifano, autore di una spettacolare performance tenutasi a Firenze in quell’anno, quando il regista Aldo Rostagno propone all’artista di dipingere una grande tela su questo tema. Schifano, la cui velocita esecutiva era leggendaria, realizza la sua gigantesca Chimera di fronte a oltre seimila spettatori che affollano la piazza SS. Annunziata a Firenze, mentre Achille Bonito Oliva commenta in diretta l’evento come in una telecronaca sportiva. L’artista dà corpo a un’apparizione dove le sagome delle chimere sfilano leggere, come trasportate da una brezza in un universo privo di gravità: “partivano in volo […], capovolgendosi e volteggiando nell’aria verso il bianco accecante della luce al lato opposto, a dissolversi come sogni al mattino”.

Mart Rovereto
Corso Bettini, 43
38068 Rovereto (TN)
T.+39 0465 670820
T.+39 0464 438887

info@mart.trento.it
www.mart.trento.it

Orari
Mar, mer, gio, dom: 10.00-18.00
Ven, sab: 10.00-19.30
Lunedì chiuso

Tariffe

Intero 15 Euro
Ridotto 10 Euro
Gratuito fino ai 14 anni e persone con disabilità

Il Mart è sostenuto da
Altemasi di Cavit, Partner del Museo
Cantina Vivallis, Partner della Casa d’Arte Futurista Depero
Rotari, Partner della Galleria Civica di Trento

La mostra Etruschi del Novecento è sostenuta da
Radio Monte Carlo, Media Partner
In collaborazione con
Trentino Marketing
Azienda per il turismo Rovereto, Vallagarina e Monte Baldo

 Fondazione Luigi Rovati
Corso Venezia 52, Milano
T. 02.38.27.30.01
www.fondazioneluigirovati.org
info@fondazioneluigirovati.org

Orari

Aperto da mercoledì a domenica, ore 10.00-20.00 (ultimo ingresso ore 19.00).
Chiuso lunedì e martedì, 24 e 25 dicembre.

Aperture straordinarie

Il Museo d’arte apre eccezionalmente nei seguenti giorni festivi: 1° novembre, 7 – 8 dicembre, 5 – 6 gennaio ore 10.00-18.00 (ultimo ingresso ore 17.00); 26 dicembre e 1° gennaio ore 12.00-18.00 (ultimo ingresso ore 17.00).

Ingressi
16 € Intero
12 € Ridotto
8 € Teen (dagli 11 ai 18 anni)
Ingresso gratuito: bambini fino a 10 anni, persone con disabilità con un accompagnatore
Ingresso gratuito ogni prima domenica del mese.

08/12/2024  11:27:45 Nota stampa “Mart e Fondazione Luigi Rovati”

Natoconlavaligia Redazione

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