Le famiglie contadine si riunivano attorno al tavolo e consumavano il pasto con un buon bicchiere di Bursôn. Fra storia e immaginazione.
di Giovanni Tavassi
Giovanni Pascoli tra le sue tante poesie, ne scrisse una per il suo amico Saverino Ferrari, bellissima dal titolo “Romagna”.
La prima quartina inizia con un doppio stato d’animo, gioioso e triste “Sempre un villaggio, sempre una campagna mi ride al cuore (o piange)” per descrivere la bellezza della sua terra e nello stesso momento il distacco da essa.
La citata poesia è ricca di significati, tradizioni e attaccamento alle radici; infatti, il poeta coglie nei suoi versi il momento della vita rurale quando i contadini smettono di lavorare, gli animali che riposano all’ombra nelle stalle, la quiete prende il sopravvento e le famiglie si riuniscono attorno ad un tavolo.
Nel mondo rurale, le cose fondamentali per la vita dei contadini erano la famiglia e il lavoro: aratura, semina, mietitura, trebbiatura, macina del grano, le bestie da accudire, le viti da curare per le uve da mangiare e vinificare.
La maggior parte delle case contadine erano attaccate alle stalle e alle porcilaie per allevare al meglio il bestiame e tenerlo sotto controllo; all’esterno sempre una grande aia, dove i bambini giocavano felici e gli animali scorazzavano e razzolavano, spesso si riempiva di casse con la frutta, nei periodi di mietitura veniva ricoperta dal grano e nel periodo di vendemmia da cesti pieni d’uva; un’aia gioiosa che cambiava continuamente colore e profumi durante le stagioni.
I vitigni romagnoli del Bursôn, già esistenti dai primi anni d.C., arrivarono fino al 1800; in quel secolo non esistevano grandi commerci e i contadini ricavavano una produzione propria di pochi quintali che veniva vinificata con l’aiuto di tutta la famiglia partendo dalla pigiatura (un momento di festa per tutti). Si lavavano i piedi e iniziavano a pigiare i grappoli nei bigonci, nei giorni seguenti veniva fatta la torchiatura mentre le mamme e le nonne con i paioli procedevano a far bollire il mosto per ricavarne prima i sugal (una sorta di budino d’uva) e poi la saba (sciroppo dolce d'uva che utilizzavano per i dolci della tradizione), e si festeggiava ancora quando il primo vino era pronto e tutti procedevano all’assaggio.
Immaginiamo ora, in questa zona di Romagna a pochi chilometri dal mare Adriatico e alle pendici dei rilievi dell’Appennino Romagnolo fra le città di: Ravenna, Faenza e Imola, nei comuni di Bagnacavallo, Lugo, Russi, Godo, Fusignano e Cotignola, i contadini che lavorano i campi, con duro lavoro, a mani nude e con pochissime attrezzature e curano, potano e vendemmiano le uve che sono parte sacra delle loro vita. Imperterriti lavorano senza sosta e sotto il sole per arrivare a mezzogiorno ora del meritato riposo e ritornano, accompagnati dagli animali che si rifugiano all’ombra della stalla mentre la famiglia tutta, che a quei tempi era sempre numerosa (bisnonni, nonni, padri madri, figli, figlie e nipoti), si riuniva attorno al tavolo e consumava il pasto con un buon bicchiere di Bursôn.
Dall’inizio dell’ottocento e per quasi un secolo queste uve fecero perdere le proprie tracce, come nel resto d’Europa, e scomparvero a seguito della malattia contratta, “La Filossera” importata dalle americhe attraverso gli insetti.
Nonostante fossero passati tanti lustri senza più vedere una vite di Bursôn, i nonni e le nonne delle famiglie contadine, oltre alle favole e ai tanti momenti di vita vissuta che raccontavano ai bambini, raccolti a cerchio davanti al focolare, continuavano a tramandare anche il ricordo di queste viti e del buon nettare che si ricavava dalle uve.
Ma un giorno successe qualcosa di incredibile: Antonio Longanesi, un contadino di Romagna incontrò sulla sua stessa strada un vite bella, maestosa e rigogliosa e fu quasi il miracolo del vitigno.
Qualche anno prima della Grande Guerra 1914/1918 (conflitto che fu devastante per noi italiani: 650mila morti di cui 400mila al fronte, 100mila in prigionia e i restanti per malattie contratte durante il conflitto, inoltre, 500mila tornarono dal fronte mutilati, invalidi o gravemente feriti), Antonio, classe 1854, era da diverso tempo alla ricerca di un appezzamento di terra da coltivare per dare reddito alla sua famiglia e lo trovò in località Boncellino a Bagnacavallo, innamorandosene subito, perché adiacente all’appezzamento c’èra anche una bellissima zona boschiva.
Era amante della caccia al capanno agli uccelli migratori e un giorno, percorrendo un nuovo sentiero, camminando nella zona boschiva attorno alla sua campagna, notò una vecchia vite maritata, così chiamata perché un tempo le viti si facevano crescere anche fra gli alberi e si avvinghiavano ad essi; infatti la vite era aggrappata ad una bellissima quercia.
A prima vista non gli sembrava fosse vero, si strofinò gli occhi e poi si avvicinò guardando attentamente le foglie ei bei grappoli, molto compatti e con una leggera patina biancastra. Capì immediatamente che non assomigliava alle altre viti tradizionali conosciute in Romagna e che poteva essere la tanta desiderata vite scomparsa da un secolo di cui tutti tramandavano il ricordo a voce.
Quel giorno Antonio non arrivò nemmeno al capanno perché aveva già fatto caccia grossa e ritornò subito alla sua terra, piantò diversi ceppi di questa vite, tenendo ben nascosto la scoperta. I ceppi attecchirono e vennero fuori piccole viti che iniziarono a produrre delle buone uve che diedero vita ad un discreto vino di 14° con le poche attrezzature di cui a quel tempo disponeva.
Da allora, le viti crebbero sempre di più e ogni anno era sempre festa quando si vendemmiava, Antonio ne vide tante di vendemmie fino al 1934 anno della sua morte.
Qualche anno dopo arrivò la Seconda Guerra Mondiale con le devastazioni che tutti conosciamo, e molti campi furono lasciati incolti e le viti non curate.
Ma siccome i romagnoli sono caparbi di natura, una quindicina d’anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, Aldo, figlio di Antonio, continuò a portare avanti la cura delle viti con la stessa tenacia e impegno di suo papà, piantò un grande vitigno nel 1956 a cui nel 1972 fu dato il suo nome “Uva Longanesi” in onore della famiglia.
Tutti sanno che specialmente in Romagna, alle famiglia o alle persone viene sempre assegnato un soprannome che portano avanti per tradizione, per questo che l’Uva Longanesi venne anche denominata Bursôn che in dialetto romagnolo era il soprannome dato alla famiglia stessa.
I Romagnoli non si fermano davanti alle piccole cose ma valorizzano da sempre la propria terra e i prodotti che producono, tramandandoli ai posteri con amore, attaccamento alle radici e politica del fare, infatti, la terza generazione dei Longanesi ha ampliato i vitigni a oltre 200 ettari alla fine dello scorso secolo con Daniele che è stato uno dei cofondatori del Consorzio “Il Bagnacavallo” ottenendo anche il marchio IGT per il proprio vino.
Ritornando all’ultima quartina della poesia del Pascoli che inizia con “Romagna solatia, dolce paese”, oggi un romagnolo come lui direbbe: “Romagna: paese di campi, sole, tradizioni e buoni vini che insieme al Bursôn accompagnano le pietanze con un sorso della terra mia natia”.
Portomaggiore, 12 maggio 2017 - Giovanni Tavassi
Video del Consorzio "Il Bagnacavallo"
Giovanni Tavassi, intervista a Daniele Longanesi IV generazione di famiglia - Produzione del Burson
Dati tecnici dell’Azienda Agricola Longanesi Daniele (Bursôn)
Vino Bursôn Etichetta Nera
Tipologia: I.G.T.
Vitigno: uva Longanesi 100% di cui almeno il 50% passita 20/40 giorni.
Zona di produzione: Boncellino di Bagnacavallo (RA).
Vinificazione: tradizionale, con macerazione in vinacce per 10/15 giorni e maturazione in botti da 500 litri per 12 mesi e in botte grande per altri 12 mesi.
Affinamento: in bottiglia per almeno 6 mesi.
Grado alcolico: 14-15% vol.
Capacità: 0,75 litri e magnum 1,5 litri
Colore: rosso granato con riflessi violacei.
Profumo: sentori di frutta matura con ricordi di ciliegie, vaniglia e note speziali.
Sapore: marcato, persistente ed elegante, con forte tipizzazione degli aromi.
Conservabilità: oltre10 anni.
Abbinamento: piatti saporiti e grassi, quali ad esempio selvaggina, arrosti o formaggi stagionati.
Temperatura di servizio: 18°-20°C.
Vino Bursôn Etichetta Blu
Tipologia: I.G.T.
Vitigno: uva Longanesi 100% di cui il 40% sottoposta a macerazione carbonica.
Zona di produzione: Boncellino di Bagnacavallo (RA).
Vinificazione: tradizionale, con macerazione in vinacce per 6/8 giorni e maturazione in botti da 500 litri per 12 mesi.
Affinamento: in bottiglia per almeno 6 mesi.
Grado alcolico: 13-13,5% vol.
Capacità: 0,75 litri.
Colore: rosso granato con riflessi violacei.
Profumo: sentori di frutta matura con ricordi di ciliegie e note speziali.
Sapore: marcato, persistente ed elegante.
Conservabilità: 4/5 anni.
Abbinamento: piatti saporiti e grassi, quali ad esempio selvaggina, arrosti o formaggi stagionati.